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MCI una breve storia

Cosa hanno in comune Back in black degli Ac/Dc, Hotel California degli Eagles e Staying alive dei Bee Gees? Oppure The Wall dei Pink Floyd, Heroes di David Bowie e Doolittle dei Pixies? La risposta è che tutti questi dischi, e moltissimi altri dello stesso livello, sono stati registrati o mixati su banchi MCI e spesso anche usando registratori a nastro MCI…eppure solo pochi appassionati o addetti ai lavori si ricordano di questa azienda di Fort Lauderdale (FL) che dalla fine anni 60 all’inizio degli anni 80 ha dominato il mercato mondiale dell’audio pro come nessun altro. Ecco una breve storia del marchio!

I prodotti MCI suonavano dannatamente bene, erano pratici e spesso più economici perché usavano tecnologie sviluppate direttamente nei propri laboratori; certo avevano anche dei difetti (le saldature dei molex vanno sempre tenute d’occhio!) ed un sound caratteristico che non era quello di un NEVE o un API, ma che comunque ha contribuito a definire il suono, soprattutto rock, degli anni 70-80.

In questo breve articolo, che, lo dichiaro, è sfacciatamente di parte, cercherò di riassumere brevemente la storia della MCI e le caratteristiche che ne hanno fatto la fortuna e resa popolarissima tra produttori, ingegneri del suono, discografici e artisti, ma soprattutto spero di contribuire alla diffusione di un capitolo spesso dimenticato e sottovalutato della cultura della registrazione audio.

La Music Center Incorporated nasce ufficialmente nel 1965 ad opera di Grover “Jeep” Harned, classico esempio di self made man americano, che partendo a metà anni 50 da un piccolo negozio di vendita e manutenzione Hi-Fi di Fort Lauderdale in Florida seppe conquistarsi la fiducia di molti operatori del settore audio fino a creare un’azienda che a fine anni 70 fatturava milioni di dollari ed esportava in tutto il mondo, ma che soprattutto continuò sempre ad investire in nuovi progetti all’avanguardia, molti dei quali sarebbero successivamente stati adottati come standard su molte altre apparecchiature

Nei decenni precedenti quasi tutti gli studi di registrazione possedevano macchine custom costruite spesso appositamente per loro e si affidavano per il resto a pochi e costosi marchi che ancora producevano attrezzatura non a livello industriale, mentre fin da subito, per contenere i costi, Jeep Harned applicò alla produzione MCI i classici metodi fordisti producendo tutta la componentistica internamente, tanto che ad inizio anni 80 l’azienda era arrivata ad avere 600 impiegati e distributori in 30 paesi del mondo.
Quello che fece la fortuna della MCI fu il fatto che Jeep Harned capì che si stavano aprendo dei mercati enormi per l’audio pro in concomitanza all’esplodere del fenomeno degli studi indipendenti che, non potendo perrmettersi di spendere cifre allora veramente enormi per marchi come Studer, Neve e 3M, optarono per i solidi ed economici prodotti MCI, supportati anche da massicce campagne pubblicitarie su riviste di musica e di settore.
Da questo punto di vista le console MCI erano concepite in versioni standard, modulari e customizzabili a piacimento dal cliente che poteva scegliere i diversi pacchetti di EQ, meter e automazione.

Il successo commerciale dell’azienda MCI raggiunse l’apice durate gli anni settanta ed era dovuto sia alle caratteristiche sonore dei prodotti, sia alla partnership con diversi studi di registrazione molto importanti per il settore come i Criteria Studios (i primi a credere nelle potenzialità di Jeep Harned e per i quali egli costruì il primo prototipo di console JH), gli Atlantic Studios ed altri dello stesso livello; se a questo si unisce un prezzo mediamente inferiore alla concorrenza si capisce come mai a fine decade la MCI fatturasse 20 milioni di dollari e occupasse il 30% del mercato americano e il 45% di quello mondiale, tanto che nel 1979, intervistato dalla rivista Billboard, Jeep poteva dichiarare che circa il 60% delle hit mondiali di quell’anno erano state registrate o mixate con console MCI!!!!!!

La propensione al mercato mondiale e i prezzi convenienti avevano reso la MCI anche l’azienda americana che esportava più console e registratori anche in paesi come il sud America (la posizione in Florida era strategica per questo) , l’est Europa e i paesi del Mediterraneo, tanto che oggi ci sono ancora studi importanti in Brasile, Grecia, Italia, ex Yugoslavia che mostrano con orgoglio le proprie console JH.
Come esempio su tutti vale quello della EMI italia che dopo aver dismesso una console REDD (!!!) acquistò un MCI per i propri studi di Milano, e così fecero anche molti studi inglesi come i Britannia Row di proprietà dei Pink Floyd.

Dopo la realizzazione della serie JH600, Jeep presentò anche un prototipo di registratore 32 tracce su 3 pollici che però non vide mai la luce in quanto nel 1982, dopo aver inizialmente supportato la Sony per la realizzazione dei nuovi registratori digitali, Harned decise di accettare l’offerta dell’azienda giapponese per la cessione del marchio MCI, ponendo di fatto la parola fine alla storia della ditta perché la Sony dopo l’acquisizione di nome e tecnologia fece uscire alcuni prodotti fino ai primi anni 80, ma presto interruppe la produzione legata al marchio di Fort Lauderdale.
A questo si deve principalmente l’oblio in cui sono cadute queste gloriose macchine analogiche, che sono di fatto oggi poco conosciute, mentre altri marchi hanno avuto decisamente più fortuna anche tra i non addetti ai lavori; tra questi anche alcuni che devono molto alla MCI come struttura e workflow: l’SSL è forse l’esempio più evidente.

Alla MCI vanno ascritti il primo registratore sia 16 che 24 tracce su due pollici, ovvero la serie JH10, JH16 (i primi prototipi ottenuti nel 1968 da un AMPEX 300 modificato da Jeep stesso) e JH24; la prima console inline della storia, la JH400 costruita nel 1972 in collaborazione con Dave Harrison (lui, quello delle console Harrison) che fu socio di Harned fino all’uscita della serie JH500; il Tape AutoLocator , ma soprattutto l’introduzione nel 1975 dell’automazione VCA inventata espressamente per la console JH500 da Harrison, che consentiva per la prima volta di registrare su 2 tracce del nastro gli automation data.

Mentre per quel che riguarda le console nello specifico ecco un breve excursus sui modelli prodotti:

La serie JH400 (versioni JH416 e 428, A e B) , equipaggiata con op-amps Harris 911 (successivamente marchiati e rinumerati come MCI 2001 opamp), era disponibile nella versione a 16 e 24 bus, in frame che arrivavano fino a 40 canali, EQ a tre bande, fader P&G, automazione e grouping VCA e meters switchabili peak/VU.

La serie JH500, uscita nelle versioni A, B, C e D, era disponibile in frame che potevano contenere fino a 28, 32, 36, 38, 42 e 56 canali assegnabili a 32 bus, EQ a 4 bande e 2 versioni di meters tra cui anche quella con sistema Plasma Display con Bargraph in 3 possibilità di settaggio (VU, Peak, DC). Anche i pack dei fader erano previsti in 3 versioni con automazione VCA (dbx gold) con microprocessore. A parte l’ultima versione i pre sono con trasformatore e molto spinti…progettata da Harrison la serie 500 è sicuramente la più bella e desiderabile delle console MCI, famosa per la sua incredibile headroom di 34db oltre il livello nominale di -6db!!!

La serie JH600, versione compatta e trasformerless della serie 500 pensata per sostituire la serie 400 era disponibile in 4 versioni, 3 standard e una mobile, equipaggiabili fino a 18, 36 e 52 canali in base alle dimensioni del frame, con due opzioni per i metter (VU e Light), 2 per l’EQ (standard a 3 bande o con vari-Q) e 3 per i Fader con automazione VCA (dbx gold). La serie 652 veniva anche definita “split”, ma semplicemente perché la grande patchbay si trova a metà dei canali e non sul lato destro, anche se il banco è sempre un in-line come i suoi predecessori. Della serie 600 esistono almeno 2 versioni nell’era pre-Sony, che si differenziano per lo schema dei canali e soprattutto per l’EQ. Questa console sarà l’ultima prodotta interamente in Florida in quanto la versione successiva riporterà la dicitura MCI-Sony ed è stata prodotta dopo l’acquisizione del brand da parte della casa giapponese.